Relazione sulle leucemie acute – Dott. Alzetta
I nuovi trattamenti delle leucemie acute mieloidi: al C.R.O. una solida realtà
La Leucemia acuta mieloide (LAM) è una patologia ematologica caratterizzata dall’espansione clonale di cellule neoplastiche (blasti) mieloidi nel sangue midollare e nel sangue periferico o, più raramente, dalla formazione di masse tumorali in altri tessuti. La LAM è una patologia tipica dell’anziano, con una età mediana alla diagnosi di circa 67 anni.
La classificazione della World Health Organitation del 2016 identifica differenti sottocategorie di LAM, in particolare LAM con anomalie genetiche ricorrenti, LAM con cambiamenti correlati a mielodisplasia, LAM correlate a terapia, LAM non altrimenti specificata, Sarcoma mieloide e Proliferazioni mieloidi associate a sindrome di Down.
A seconda delle informazioni citogenetiche e molecolari raccolte tramite studio midollare all’esordio della patologia e riferendosi alla stratificazione proposta nel 2017 dalla European Leukemia Net (ELN), si individuano le classi di rischio favorevole, intermedio e sfavorevole. Le informazioni laboratoristiche raccolte, specie quelle molecolari, sono spesso dirimenti per la scelta del più adeguato percorso terapeutico. E’ necessario, pertanto, che tali analisi vengano eseguite da un laboratorio altamente qualificato e che i risultatati siano disponibili al clinico nel volgere di pochi giorni onde permettere il tempestivo inizio della terapia, in un centro il cui personale medico-infermieristico abbia elevata competenza nell’utilizzo di farmaci chemioterapici.
Mentre nel caso di una patologia a prognosi favorevole il solo approccio chemioterapico può condurre alla cura della malattia, per le altri due classi di rischio l’unico approccio potenzialmente curativo è rappresentato dal trapianto allogenico di cellule staminali da donatore. Tale procedura, tuttavia, essendo gravata da morbiditià e mortalità significative, non può essere proposta a pazienti con età superiore a 75 anni o con comorbidità significative.
Tra le leucemie acute con anomalie genetiche ricorrenti (WHO2016) e a rischio favorevole (ELN2017) figura la leucemia promielocitica acuta (LPA). Essa si caratterizza per una particolare aberrazione genetica che determina, a livello midollare, un blocco maturativo mieloide con accumulo di promielocitici displastici. La principale manifestazione clinica è rappresentata da una sindrome emorragica grave, tutt’oggi causa della maggior parte degli eventi infausti. Il trattamento della LPA è la storia di un enorme successo. Nel volgere degli ultimi tre decenni tale patologia è passata dall’essere quasi inevitabilmente fatale ad avere tassi di guarigione più alti rispetto alle altre forme di LAM, sfruttando attualmente, almeno nelle forme a rischio basso-intermedio, farmaci non propriamente chemioterapici.
Più in generale, nelle trattamento della LAM, la prima grande rivoluzione terapeutica fu rappresentata, negli anni 70, dall’associazione di daunorubicina (eseguita per tre giorni) a citarabina (per sette giorni ad infusione continua), schema noto con il nome di “3+7”. Entrambi i farmaci interferiscono in vario modo con la sintesi di DNA agendo in particolare su elementi cellulari in attiva replicazione, caratteristica questa propria (anche se non esclusiva) della cellula leucemica: il danno al DNA, infine, conduce alla morte cellulare. Nonostante i tentativi di migliorare efficacia e profilo di sicurezza di tale schema mediante aggiunta o sostituzione di alcuni farmaci, il “3+7” è rimasto il cardine del trattamento della LAM in induzione nel corso delle decadi successivi, rappresentandone tutt’oggi in buona parte dei casi la struttura polichemioterapica portante.
Il trattamento delle LAM prevede diverse fasi. Per “terapia di induzione” si intende il primo ciclo terapeutico eseguito dopo la diagnosi, volto a ridurre di diversi logaritmi la quota di malattia in fase florida. I farmaci chemioterapici, laddove abbiano successo, conducono alla distruzione di un’importante quantità di cellule leucemiche; nonostante anche le cellule residue fisiologiche subiscano inevitabilmente un danno, esse saranno in grado di rigenerarsi in maniera più efficace e rapida rispetto alla controparte malata, potendo pertanto ri-colonizzare l’ambiente midollare.
La valutazione della bontà della risposta viene eseguita tramite un nuovo studio midollare. Si parla di “risposta completa” qualora, all’osservazione microscopica di un campione di sangue midollare adeguatamente preparato, la quota di cellule leucemiche residue risulti inferiore al 5% della cellularità midollare complessiva . Per “risposta parziale” si definisce la persistenza di una quota variabile di cellule blastiche, compresa tra il 5 e il 25% o una riduzione della stessa di almeno il 50% rispetto alla diagnosi. Nel caso in cui la percentuale dei blasti risulti aumentata rispetto al dato iniziale si parla invece di progressione di malattia; la malattia viene definita stabile qualora nessuno dei precedenti criteri venga soddisfatto. Qualora si identifichi una risposta completa sarà possibile il prosieguo del programma terapeutico con uno o più di cicli di “consolidamento” il cui scopo sarà qullo di mantenere e approfondire il risultato ottenuto. Nel caso invece di una riposta parziale sarà possibile riproporre un nuovo ciclo di induzione (“re-induzione”); nel caso di mancata o insufficiente risposta sarà necessario modificare l’approccio terapeutico iniziale. Anche la valutazione della bontà della risposta è andata evolvendosi nel corso degli anni e, accanto allo studio morfologico, tuttora dirimente, sono oramai di classico utilizzo lo studio immunofenotipico e quello molecolare. Tali indagini, essendo dotate di maggior sensibilità, sono in grado di “scovare” elementi cellulari neoplastici non sempre individuabili all’osservazione microscopica. L’eventuale “riaccensione” di un segnale molecolare è generalmente prodromica alla franca recidiva ematologica.
Dopo circa quattro decenni, in questi anni stiamo vivendo una seconda rivoluzione terapeutica. Dal 2017 ad oggi numerose molecole hanno ottenuto l’approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense e dall’agenzia europea dei medicinali (EMA).
Alcune di queste molecole sono utilizzabili qualora il clone neoplastico sia caratterizzato da alcune aberrazioni molecolari. E’ questo il caso di Midostaurina e Gilteritinib, farmaci a somministrazione orale, utilizzabili nel sottogruppo di LAM caratterizzato dalla mutazione FLT3 (tirosin chinasi 3 correlata alla FMS). Le mutazioni di FLT-3, dal punto di vista biologico, conferiscono al clone neoplastico un’importante spinta proliferativa. Dal punto di vista clinico, tali forme si associano ad una peggior prognosi, manifestando una minor sensibilità ai protocolli polichemioterapici standard e soprattutto una più spiccata propensione alla recidiva. Uno studio clinico ha dimostrato come l’associazione di Midostaurina alla polichemioterapia “3+7” in pazienti affetti da LAM-FLT3 mutata di nuova diagnosi, determini, rispetto al solo trattamento chemioterapico, un miglioramento significativo dei tassi di sopravvivenza globale e libera da malattia. Gilteritinib è un potente e selettivo di FLT3-ITD. Uno studio clinico ha dimostrato la superiorità di tale farmaco rispetto a polichemioterapia di salvataggio nel contesto dei pazienti con LAM FLT3-mutata recidivante/refrattaria. E’ verosimile ipotizzare che Giteritinib possa prima o poi giungere in prima linea: a tal proposito sono in corso studi di associazione per pazienti affetti da LAM di nuova diagnosi.
Un altro farmaco di recente introduzione in clinica è il Gentuzumab Ozogamicin (GO). Si tratta di un anticorpo monoclonale anti CD33 coniugato ad un agente tossico chiamato calicheamicina. Il farmaco è utilizzabile qualora il clone neoplastico esprima la proteina di superficie CD33. Il legame tra CD33 espresso sulla superficie cellulare e GO conduce all’internalizzazione del farmaco: la calicheamicina lasciata libera di agire accede al nucleo dove induce danno del DNA e la conseguente morte cellulare. Ad oggi in Europa il farmaco è approvato in combinazione a Citarabina e Daunorubicina nelle LAM di nuova diagnosi con espressione di CD33.
Un altro farmaco recentemente approvato è CPX-351. Tale farmaco è costituito da una formulazione liposomiale di citarabina e daunorubina. Si tratta pertanto dei “vecchi” farmaci costituenti il classico “3+7”, incapsulati all’interno di un compartimento liposomiale. Tale strategia permette un maggiore accumulo dei due principi attivi nell’ambiente midollare e, soprattutto, nelle cellule neoplastiche con un minor tossicità extra-ematologica: a titolo di esempio, tale farmaco è molto meno correlato a sviluppo di alopecia rispetto al “3+7” standard. In uno studio clinico, la superiorità di CPX-351 rispetto a terapie tradizionali è stata dimostrata in pazienti di età pari o superiore ai 60 anni e affetti da LAM secondaria (LAM evolute da Mielodisplasia o correlate a trattamento chemioterapico per altra precedente patologia neoplastica).
Una strategia che si è dimostrata efficace in certi contesti clinici è l’associazione di Ipometilanti e Venetoclax. In alcune patologie ematologiche l’espressione di alcuni geni è resa impossibile a causa di una meccanismo di silenziamento chiamato metilazione. Alcuni farmaci sono in grado di inibire la metilazione e ripristinare la normale espressione genica, in parte anche bloccando la crescita delle cellule tumorali: si tratta dei farmaci farmaci ipometilanti, Azacitdina e Decitabina.
Un altro farmaco innovativo, utilizzato anche in altre patologie ematologiche, è il Venetoclax. I trattamenti citotossici tipicamente inducono un danno al DNA la qual cosa, a sua volta, innesca dei fisiologici meccanismi di autodistruzione cellulare (apoptosi). Si tratta di un sistema di controllo: una cellula con DNA alterato e potenzialmente pericolosa va incontro a una distruzione programmata. Purtroppo le cellule neoplastiche sono in grado di disinnescare tale processo di controllo, ad esempio iperesprimendo le proteine anti-apoptotiche della famiglia BCL2. Tale adeguamento permette loro di inscenare una “fuga” dall’apoptosi. Venetoclax è un inibitore orale di BCL2. Un recente studio ha dimostrato la superiorità della combinazione di Azacitidina/Venetoclax rispetto a Azacitidina/placebo in pazienti affetti da LAM non eleggibili a chemioterapia per età (superiore a 75 anni) o comorbidità. Tale associazione rappresenta ora una buona arma terapeutica laddove età avanzata e comorbidità non permettano l’applicazione di un trattamento chemioterapico più intensivo.
Negli ultimi anni, in ambito ematologico, stiamo assistendo ad una rapida evoluzione del panorama terapeutico. Anche alla luce di ciò, è importante che i pazienti affetti da Leucemia Acuta Mieloide vengano trattati in Centri dotati della possibilità di applicare protocolli sperimentali, in grado talvolta di fornire opzioni di trattamento non altrimenti disponibili. Alcuni Centri sono inoltre dotati della possibilità di eseguire studi clinici di fase 1, il cui obiettivo è definire sicurezza e tollerabilità di farmaci sperimentali.
Nel trattamento delle leucemia acute mieloidi, a prescindere dall’età e dalle comorbidità del paziente e dal grado di intensità della terapia intrapresa, è necessario che quest’ultima venga elargita in un Centro caratterizzato da una realtà medico-infermieristica altamente qualificata e i cui laboratori possano applicare percorsi diagnostici ad importante contenuto tecnologico.